Intervento 24 febbraio 2017: Giovanni Maria Pavarin
Giovanni Maria Pavarin, Presidente Tribunale Sorveglianza Venezia:
Grazie a tutti di questo invito: oggi si respira un clima di festa se non avverto male, ma è che sono un sostenitore convinto, nel senso che anche se non lo fossi avrei l’obbligo di esserlo, perché il nostro paese ha fatto questa scelta fondamentale nel ’75, di credere che la pena abbia uno scopo; l’hanno scritto nella Costituzione, l’hanno reificato con le norme sull’Ordinamento penitenziario, nelle quali sta anche scritto che lo Stato ha l’obbligo di dare il lavoro a chi espia la pena in carcere. Questa norma appartiene al miliardo di norme che sono state scritte ma che raramente vengono attuate; siamo bravissimi a scrivere le norme, ma quando si tratta di farle camminare sulle gambe delle persone ci tiriamo indietro. Abbiamo dei sani principi, ma quando tentiamo di attuarli però riemerge quella parte di noi che crede nella funzione solo retributiva della pena, solo di prevenzione speciale della pena, specialmente in epoche in cui il tema della sicurezza è un potente strumento per chiunque si avventuri nell’agone politico. Se uno vuole perdere voti, vuole fondare un partito che abbia tre mesi di vita, basta che dica che il carcere deve essere extrema ratio e che tutti i condannati devono avere una chance di espiare la pena in misura alternativa al carcere. Sono venuto qui a Venezia nel 2010, venivo da Padova; a Padova ho vissuto un’esperienza altrettanto bella, in cui però il volontariato era evidentemente di origine cattolica. So che qui, perché l’ha confermato oggi Gianni Trevisan, il volontariato – che è alla base dell’esperienza che oggi ci riunisce tutti – è di origine eminentemente laica; io provo sempre un senso di grande ammirazione per il volontariato laico, e specialmente per quello penitenziario, perché il volontariato cattolico si basa anche sulla speranza del premio futuro, ma chi non crede e si cimenta in questa attività è doppiamente meritevole, perché lo fa senza avere altro scopo che quello di dare attuazione pratica ai principi che lo Stato scrive ma non applica. A volte mi chiedo: “Lo Stato, lo Stato, lo Stato…”, ma lo Stato nessuno lo ha mai visto, nessuno lo ha mai incontrato, nessuno gli ha mai stretto la mano, le norme che lo Stato scrive invece vengono messe in essere dalle persone alle quali stringiamo la mano, alle quali sorridiamo, e che incontriamo ogni giorno, quindi è un complimento doppio. Io non conosco i dati della recidiva delle persone che hanno avuto l’avventura di incontrare nella loro vita Gianni Trevisan e i suoi colleghi, ma io ho visto l’otto per cento, mi auguro che sia vero. Io a queste statistiche credo sempre, anche se dentro di me penso anche… i cattivi che cosa dicono? Siccome ogni anno vengono archiviati milioni di procedimenti penali per essere rimasti ignoti gli autori del reato, chi lo dice che tra questi ignoti… però è un pensiero che faccio ma non dico, certamente chi ha la possibilità di esercitare il diritto al lavoro è destinato alla recidiva molto molto meno. Da questo punto di vista il condannato che espia la pena in carcere è una persona che è super privilegiata rispetto a tutti gli altri cittadini liberi che non hanno delinquito, perché il cittadino non ha diritto al lavoro, anche se l’art. 1 della Costituzione dice che la Repubblica si fonda sul lavoro, ma non c’è nessuno che dice che tutti abbiamo diritto di trovare lavoro; il detenuto invece ha questo diritto soggettivo perfetto che è anche oggetto di un obbligo, la legge dice: “Lo Stato ti dà il lavoro, tu hai l’obbligo di esercitarlo.” Ecco, a questa parte mancante, a queste mancanze supplisce il volontariato che è entrato intelligentemente in carcere e che ha avuto qui a Venezia tutte queste idee stupende, perché ci vuole anche fantasia per rincorrere il Coro della Fenice, per rincorrere il Molino Stucky, per rincorrere tutte le cose che sono manifeste in queste foto e sono rappresentative della fantasia, dell’intelligenza, delle persone che hanno creato queste occasioni. La mia esperienza, a parte la recidiva che appartiene al regno della statistica che non conosco, la mia esperienza è che il lavoro comunque trasforma le persone. In carcere ho fatto colloqui con decine e centinaia di detenuti: mi ricordo di un ristretto che vedevo una volta al mese, a un certo punto non era più lui, aveva il volto cambiato, gli ho chiesto: “Ma che cosa è successo?” “Mi hanno ammesso” disse “al lavoro all’esterno.” Cambia il volto della persona che sta in carcere, il lavoro produce un’opera di cambiamento silenzioso della persona, il lavoro non parla, ma da solo ha questa efficacia di operare dei lenti mutamenti nella persona che ha delinquito, che ha perso la sua dignità rispetto allo Stato, rispetto alla vittima del reato, rispetto ai suoi parenti, e molto spesso anche rispetto a se stesso. Lentamente, l’avere un lavoro, riuscire a dire: “Mando un po’ di soldi a casa, mi mantengo, al sopravvitto compro con i miei soldi, senza chiedere al mio compagno di fare la spesa per me”, come spesso accade. La valenza terapeutica, chiamiamola così, di coloro che abbiamo condannato a espiare la pena in carcere, è proprio questa, non sto qui a dire quale sia la composizione sociale delle persone che stanno in carcere, che sempre di più è una discarica sociale, sempre di più, diciamo, le persone che ci sono e che incontriamo sono quasi tutte di un certo tipo. E io adesso devo anche dire, perché vedo che c’è la dottoressa Gabriella Straffi, che devo fare una parola per lei: mi sembra doveroso da parte mia prima di chiudere. Appartiene alla schiera dei migliori che se ne vanno, perché lei è appena andata in pensione, non sto dicendo che siccome è in arrivo il sottosegretario che si chiama così, non voglio dire che entrerà uno che andrà da un’altra parte, però appartiene alla schiera dei migliori che se ne vanno, e se ne vanno anzitempo, e a me dispiace che Venezia sia privata di questa guida fondamentale che ha orientato la politica non solo del carcere, ma che è stata una specie di faro, di luce. L’avete vista poco in TV e sui giornali, è una di quelle persone che fanno, fanno molto e dicono poco, o meglio parlano con il loro lavoro. Un impegno assoluto, svolto senza l’ansia di apparire, ma con la convinzione di incarnare con la sua opera dei valori che ha riconosciuto nelle persone che ha visto in carcere. Non penso che le sia mai interessato della recidiva (le statistiche sulle zingare che rubano lasciano poca speranza): però in ognuna di queste persone secondo me ha instillato, ha immesso un pensiero diverso, un pensiero nuovo.
Penso di avere finito, ringrazio tutti quelli che mi hanno ascoltato.
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